Don Milani, formatore di sacerdoti

Pubblicato giorno 27 giugno 2017 - In home page, in primo piano, News

Convegno su don Milani
presso la parrocchia S. Pietro
Piazza Armerina, 26 giugno 2017
Esperienza

LA COMUNITÀ PENSANTE DI BARBIANA: LA PAROLA NON CODIFICATA

1. Parlare di don Milani è davvero arduo. Si tratta di un grande testimone del novecento, nel quale si alternano in maniera armoniosa fede e cultura. Mi piace, per questo mio intervento, prendere le mosse da un testo che lessi alla fine degli anni settanta: Esperienze pastorali, edito nel 1958. L’opera fu giudicata rivoluzionaria, per le proposte pastorali che l’allora cappellano di S. Donato in Calenzano andava presentando. Anche se inizialmente fu data la possibilità di pubblicazione con l’imprimatur del card. Dalla Costa, con la prefazione dell’arcivescovo di Camerino, sotto la revisione ecclesiastica di padre Reginaldo Santilli, Esperienze Pastorali fu ritirato dal commercio il 18 dicembre del 1958, con decreto del Santo Uffizio. L’opera infatti fu dichiarata inopportuna. Essa tuttavia permette di cogliere alcune coordinate essenziali, umane, religiose e di fede che portarono don Milani ad essere quello che fu a Barbiana. Una lettura superficiale dell’opera porta a considerarla un centone di questioni religiose, in forma di statistiche. Ma non è così. Essa lascia trapelare la voce di un uomo e prete, dalla testimonianza solitaria e profetica.

2. È nella lettura di quest’opera, sulla quale mi sono formato proprio agli albori degli studi di Teologia, che ritrovo le ragioni della mia sensibilità al cambiamento. È chiaro che quando si parla di cambiamento non s’intendono soltanto operazioni innovative, ma lo sforzo di capire cosa effettivamente può essere utile per migliorare le nostre condizioni pastorali in relazione al vangelo. Ho imparato questo da don Milani: ad amare anzitutto il vangelo, cercando sempre quello che gli è più conforme possibile. Non sempre è tutto chiaro. Occorrono pazienza, lungimiranza, attesa, preghiera. Tale disposizione non sempre è capita, poiché ci si colloca tra due estremi: la paura del cambiamento che genera inquietudine e senso di incertezza; l’entusiasmo facilone che reclama quelle forme innovative che spesso risultano destabilizzanti. Esperienze pastorali, a mio parere, si colloca tra questi due estremi, considerando che don Milani rientra nel piano della provvidenza di Dio, il quale ha preparato attraverso alcuni testimoni (cfr. Mazzolari), dalla lungimiranza sapiente, l’avvento del Concilio Vaticano II.

3. Rileggendo a distanza ormai di trent’anni il colofone che appuntai sul libro, mi rendo conto che certe inquietudini spirituali accompagnano ancora la mia ricerca della verità. Anche se all’esterno non dimostro quasi nulla, penso di essere con me stesso una persona fortemente rigorosa e disciplinata. E quando divento trasgressore – succede in qualche raro caso – ho la sensazione di smarrire il mio senso d’identità. Mi riferisco in modo particolare all’utilizzo del tempo, verso il quale penso di essere molto sensibile. A 19 anni scrivevo: «Perdere tempo!!! Quanto tempo si perde oggi, e don Milani mi insegna a impiegare il tempo meglio possibile come i suoi figlioli. Non deve essere il divertimento lo scopo della mia vita, ma valori ben più importanti e proliferi. Bisogna che rimanga sempre ad un livello alto per poter recepire i segnali che provengono da un livello altissimo. Il divertimento abbassa il livello intellettuale (specifico: quello non borghese secondo la concezione di don Milani) dell’uomo. Il libro dà molti insegnamenti. Si tratta di recepirli con animo libero e limpido». Concludo con un’affermazione suggestiva, che riletta oggi mi riporta ad un severo atto di responsabilità: «Comunque, a mio avviso, la figura di don Milani resta enigmatica, pur essendo paradigmatica per la mia vita. Essa infatti cela qualcosa che non riesco ad esplicitarlo con le parole, ma che resta custodito gelosamente nel mio cammino».

4. Gli anni della mia formazione teologica furono accompagnati da queste letture che, oggi, a distanza di tempo considero davvero significative. Esse hanno dato un preciso orientamento, plasmando in me una forma di sensibilità che si può condensare nel seguente modo. Nacque subito in me il desiderio di non perdere mai occasioni di apprendimento, cercando, soprattutto in quel periodo, di fare tesoro di ogni cosa che leggevo e meditavo. Nel tempo poi ho reso più specialistica la formazione, dando orientamento agli studi e comprendendo la mia inclinazione. Rimaneva il metodo: mai perdere tempo. Ed è quello che ho sempre fatto, anche nel coltivare gli hobby. Devo a queste letture, particolarmente a don Milani e a don Mazzolari, la sensibilità verso i poveri e comunque verso tutte quelle forme di ingiustizia che si sperimentano nella società. Anche i moniti di Papa Francesco sulla predilezione verso i poveri toccano in me corde molto sensibili che mi portano, per il servizio che mi è stato chiesto nella Chiesa, a suggerire una pastorale che si commisuri sulla condizione di miseria: materiale, culturale, spirituale, in cui si trova tanta gente. Il messaggio di don Milani è molto articolato e riguarda ambiti diversificati della nostra pastorale. Ma quello che è rimasto fortemente inciso nella mia vita è una domanda: che grado di condivisione vive oggi un prete con il suo popolo e nella sua comunità? È chiaro che questa domanda interessa ogni battezzato, ma in primo luogo coloro che, aderendo ad una chiamata, si trovano ad essere guide per la gente. Come si fa ad amare i poveri, aiutandoli e spronandoli verso un cambiamento, se non c’è condivisione? Credo che la mancanza di condivisione sia il vero problema della pastorale. Ciò vale per tutti, vescovi, preti e laici impegnati.

5. Esperienze pastorali risuonò in me come una provocazione. Il punto di vista completamente innovativo rispetto alla pastorale tradizionale mi indusse a praticare, da seminarista, un’esperienza stupefacente che ricordo ancora costitutiva della mia crescita: la realizzazione di un gruppo giovanile sociologicamente misto: contadini, muratori, studenti di varia estrazione culturale. L’occasione mi fu data dai parroci di due parrocchie limitrofe, invitati ad organizzare una zona pastorale. Fu il gruppo giovanile che diede vita a questa bella esperienza di pastorale integrata (fine anni 70). Ma l’aspetto più esaltante fu la condivisione che vissi stando con questi giovani non nelle parrocchie, ma lungo la strada, nei bar e poi lentamente in una sede che ci permetteva di vivere momenti di riflessione altamente culturali con forme di interscambio che arricchivano tutti. I giovani infatti erano anche di estrazione sociale differente: qualcuno era ricco, altri erano poveri. Devo quest’esperienza, che mi segnò profondamente, alle letture che facevo in quel periodo, in particolare don Milani. Ricordo una frase tratta da Esperienze pastorali. A proposito delle processioni, don Milani si rese conto che la maggior parte della gente viveva l’evento celebrativo in modo distaccato, e disse: «perdonaci perché non siamo là con loro». Essere con la gente – ed oggi spero di poter esprimere nel servizio pastorale di vescovo quanto maturavo in quel periodo – costituisce il criterio della pastorale vera e concreta, quella che accompagna realmente la gente a capire il mistero attraverso chi lo vive, anche quando non lo si percepisce appieno.

6. L’epoca che stiamo vivendo è molto simile a quella che visse don Milani. Vorrei, a tal riguardo, riferire quello che egli scrisse a proposito della missione, ricordando i missionari cinesi. Nella lettera dall’oltretomba vi sono dei passaggi che ci debbono far riflettere sul modo come stiamo reagendo nei confronti degli immigrati, celando qua e là, forme di silente razzismo. Nessuno infatti dirà a sé stesso di essere segregatore di razza, ma di fatto l’atteggiamento di sospetto e distanza lascia trapelare un forte senso di indifferenza. Scrive don Milani: «Sulla soglia del disordine estremo mandiamo a voi quest’ultima nostra debole scusa, supplicandovi di credere nella nostra inverosimile buona fede (ma se non avete come noi provato a succhiare con il latte errori secolari non ci potrete capire). Non abbiamo odiato i poveri come la storia dirà di noi. Abbiamo solo dormito. È nel dormiveglia che abbiamo fornicato con il liberalismo di De Gasperi, coi congressi eucaristici di Franco […]. Dite loro solo che siamo morti e che ne ringrazino Dio. Troppe estranee cause con quella del Cristo abbiamo mescolato. Essere uccisi dai poveri non è un glorioso martirio. Saprà il Cristo rimediare la nostra inettitudine». Questa pagina è di un’attualità disarmante. Qui la questione non riguarda soltanto la scelta preferenziale dei poveri, ma se noi abbiamo effettivamente praticato la povertà e lo spirito vero del vangelo. D’altronde, se non si impara a gestire la propria vita con essenzialità e senso di giustizia, come si fa a capire i poveri, a sostenerli nella loro condizione di miseria e a sollecitare la loro creatività per impostazioni nuove della loro esistenza? L’ira dei poveri è, come stiamo vedendo dai variegati flussi esodali, accovacciata alla nostra porta: la nostra esistenza adornata di perbenismo religioso e culturale

7. È stato scritto che la visita di Papa Francesco a Barbiana ha riabilitato Esperienze Pastorali, un’opera che può ancora spronare i lettori a comprendere che nelle attività pastorali occorre non soltanto mostrare la propria attenzione ai poveri, ma di prendere le mosse proprio dalla loro presenza, sempre più centrale nella prassi pastorale, per reimpostare l’annuncio cristiano. Esperienze Pastorali insegna a ricentralizzare il povero, dal quale trapelano paradossalmente le maggiori soluzioni alle questioni epocali che stanno affliggendo l’umanità: dal clima della terra all’individualismo relazionale; insegna soprattutto a mirare all’essenziale e a salvaguardare l’attuazione sincera del vangelo. Mi piace concludere con un monito pastorale che ci mette nella condizione, oggi, di riflettere seriamente sui cristiani che stiamo formando: «Sappiamo che le comunioni aumentano a vista d’occhio. Se dunque davvero viene meno gente in chiesa vuol dire che il livello religioso di quelli che vengono è in notevole ascesa. Meno cristiani alla festa e più alla comunione! Se è così, le cose si stanno rischiarando e si può guardare all’avvenire con fiducia. E le anime che si allontanano? Pace. Almeno avranno sotto gli occhi una comunità cristiana più religiosa». La domanda è: le nostre comunità sono davvero più religiose, oppure delle aggregazioni che vanno coltivando ciò che emotivamente colpisce e non aiuta a crescere nella fede? Verrebbe da fare, sulla falsariga di don Milani, una statistica (dato che le statistiche erano per don Milani opere d’amore): quante sono le persone che partecipano ad una festa in rapporto a quelle che partecipano ad una lectio divina? Basta soltanto questa domanda per capire che l’orientamento dovrebbe essere, alla maniera di don Milani, quello di una Chiesa povera, che non si scuote di fronte alle masse, e cerca soltanto di essere sé stessa praticando il vangelo del Regno.

don Rosario, Vescovo